ابراهيم درغوثي
26/05/2008, 02:44 PM
النصوص مترجمة الى الايطالية
Il martire
Superata la porta del cimitero, vidi la fossa di una tomba aperta come una ferita che sembrava sanguinare sin dall’inizio del creato.
Mi diressi dal custode del cimitero e gli chiesi chi fosse stato a scavare quella tomba. Egli mi rispose che due giorni prima erano venuti alcuni uomini importanti per raccogliere le ossa dei martiri della rivoluzione e trasportarle al cimitero dell’indipendenza.
Gli risposi che quella però era la tomba di colui che aveva svelato all’esercito francese il posto dove si riunivano i rivoluzionari, che grazie a quella indicazione l’esercito francese aveva potuto sorprenderli, attaccarli e uccidere l’uomo stesso, che era rimasto qui a giacere sotto terra, mentre gli altri erano riusciti a fuggire nascondendosi nel buio fitto.
E mentre m’indicava con la mano la fossa che conteneva la bara dell’uomo che i rivoluzionari avevano sgozzato, dopo che l’esercito francese era andato via dal quartiere, mi disse che era confuso, con tutte quelle tombe che si somigliavano, e additò ancora proprio la tomba di quell’uomo lì.
Il custode aggiunse:
Un’ufficiale lo salutò perfino in modo eroico, dopo aver coperto la bara che conteneva le sue ossa con la bandiera della patria.
Guardai la tomba del martire che giaceva ancora nel cimitero degli stranieri e mi morsi la lingua per tacere.
Campo di concentramento
Era già l’alba, quando si udirono arrivare i guardiani che con gli stivali grossi calpestavano la terra.
Lui però si svegliò prima dell’arrivo della pattuglia e cominciò a stropicciarsi gli occhi con le mani congelate dal freddo.
Il capo delle guardie gli chiese di alzarsi e così fece. Gli uomini della polizia militare camminavano e lui camminava davanti a loro. Quando arrivarono alla piazza scelta per l’esecuzione delle condanne a morte, c’era un gruppo di prigionieri con le mani e i piedi legati, con gli occhi bendati. Vendendoli, disse fra sé: “Quanti sono in questa giornata di pioggia!”.
E senza aggiungere nulla – tanto era abituato a questo lavoro - il capo della truppe gli tese una sciabola e lui cominciò a sgozzare gli uomini ammonticchiati per terra, uno dopo l’altro, mentre recitava il nome di Dio appresso a ogni testa tagliata.
L'urna elettorale
Sin dalle prime ore del mattino, stavano fermi lì davanti all’ingresso; le code infinite di persone che si spingevano con i gomiti e le braccia, c’era molta confusione, sembrava che fosse il giorno del giudizio.
Entravano uno dopo l’altro in un’aula immensa e piena di uomini importanti. Sceglievano dei fogli di diversi colori: rosso, giallo, bianco, verde, blu, arancione, viola e rosa; ognuno di loro si fermava davanti a una scatola di vetro trasparente per mettere dentro uno di quei fogli e, prima di abbandonare il luogo, gettava uno sguardo su quel piccolo lucchetto giallo che chiudeva la fessura della scatola, con i suoi tanti colori che sembravano un arcobaleno.
Questo era quello che accadeva la mattina; la sera invece la stessa scatola veniva sollevata come uno sposo sulle spalle degli altri e veniva quindi aperto il lucchetto per contare i voti. La cosa strana era che quegli uomini importanti ai quali si era affidato il compito della selezione dei fogli non avvertivano nessuna fatica nel fare tutto ciò, anzi lo facevano con la massima facilità e velocità: l’arcobaleno era diventato di un solo colore; era diventato tutto e tristemente grigio!!!
Maternità
1- La sera
La vidi sdraiata sul lato sinistro, stava allattando i suoi cuccioli. I suoi occhi – color miele - erano aperti e i cinque cuccioli stavano succhiando il latte e giocando tra di loro graffiandosi a vicenda, lei invece continuava a dormire sul lato sinistro.
Era la nostra cagna, non aveva un nome, correva ogni mattina verso il campo, anzi precedeva sempre mio padre e non tornava fino a sera.
Abbaiava agli sconosciuti e diventava felice quando vedeva gli amici. Trascorreva la sera davanti la stalla degli altri animali. Questa era la sua vita per tutto l’anno, d’inverno e d’estate.
2- L’indomani mattina
Era ancora lì, sdraiata sul lato sinistro e continuava ad allattare i suoi cuccioli. Vidi volare sopra di lei tante mosche verdi. Mi avvicinai, presi uno dei suoi cuccioli e vidi il latte scorrere dal suo muso, lo abbandonai e lo lasciai continuare a succhiare la mammella. Lo presi nuovamente e di nuovo il latte cominciò a scorrere dal suo muso, le mosche verdi invece continuavano a ronzare e a posarsi sulla cagna ormai morta.
Un volto riflesso sullo specchio
Si affacciò alla finestra e vide riflesso il proprio volto nello specchio della giovane vicina di casa, che aveva lasciato spalancata al cielo la finestra. Mosse la lingua, le sopracciglia e strizzò l’occhio al suo volto riflesso allo specchio, e non appena sentì i passi della vicina scappò dalla finestra, ma il suo volto rimase lì e prendendolo in giro continuava a strizzare l’occhio alla giovane vicina.
Uno scorpione
Si affacciò alla porta più di una volta, nell’aria gravitava sospesa una grande confusione che finì per piombargli addosso. Lasciò la porta semichiusa e tornò dentro. Accese il televisore e un minuto dopo lo spense per mettere una cassetta nel registratore, ma la tolse subito, prima che iniziasse la canzone. Si alzò e si diresse verso il muro per dare un pugno con tutte le sue forze. Sentì subito un terribile dolore al polso, che continuava a pulsare e a dare fastidio a onde alterne, cosa che lo spinse a grattarsi fortemente l’avambraccio ormai gonfio come il resto del braccio. Ma non c’era tregua, tornò a colpire nuovamente il muro e non smise finché non fu spossato e non cadde accasciato lungo la parete. Ripeteva: Quanto è doloroso il morso di questo scorpione!
La mano e il tamburo
Quando cominciavi a battere fortemente il tamburo, i palmi delle mani avvertivano un intorpidimento che si espandeva per tutto il corpo, come una dolce scossa elettrica, la fronte diventava tutta bagnata e sul tuo collo cominciava a scorrere il sudore; e quando lentamente raggiungevi lo stato di calma, iniziavi nuovamente, con la maestria di un artista, a battere sul tamburo, producendo un ritmo dolce e caldo come un sogno invernale: un ritmo che conduceva alla pista da ballo tante ballerine, che cominciavano a gridare gioiosamente e a muovere i loro sederi e i loro petti in tutte le direzioni, con molta bravura, mostrando insieme la loro bellezza, evidenziata dalle mani abbellite con l’henné, dalle labbra colorate dal rossetto, dagli occhi truccati con il kajal e dalle bocche tinte all’interno con issiwaq. Continuando a ballare, le donne si spingevano l’una contro l’altra e ridendo cadevano una volta sul tuo tamburo e un’altra sulle tue cosce, si alzavano a volte lentamente e a volte velocemente, fuggendo via come uno stormo di colombe; tu invece, guardavi con grande attenzione e il tuo cervello immagazzinava tutto: la voce e i movimenti, sognando di avere tutte queste donne, ma non sapevi se volevi quella abbondante perché ballava bene e quindi poteva essere brava anche in altre cose, o se desideravi quella più giovane perché aveva un magnifico profumo e muoveva le mani e i piedi in modo parallelo ed equilibrato, oppure se volevi l’altra donna perché era più magra e più dolce, come un gelsomino.
Per tutto il luogo dove si ballava, si sentivano i buoni odori dell’incenso, del legno di aloe, del cumino e della mirra e quando le yous yous diventavano sempre più forti, tu entravi già in estasi e per farti uscire da questo stato, il tuo compagno di coro ti dava un colpo di gomito perché ti accorgessi che il ritmo stava ormai diventando stonato, quindi ti svegliavi nuovamente e ti rimettevi a battere sul tamburo, una volta riscaldata la pista da ballo sollevavi la mano verso il tuo volto e coprivi la tua anima ormai morta con gli occhiali scuri.
ll sangue di mio padre
Quando, improvvisamente, dalle mani del bambino cadde il cestino dov’era la bottiglia del vino rosso, il piccolo rimase bloccato dal forte spavento e non seppe cosa fare; pochi istanti dopo si inginocchiò sull’asfalto per raccogliere i pezzi della bottiglia ormai rotta. Nel liquido, che continuava a scorrere sulla strada, c’era ormai una schiuma bianca sulla quale si erano affollate alcune mosche e per evitare che il vino si sciupasse del tutto, il bambino innalzò una piccola barriera di terra. Come se non bastasse, si appoggiò con gli avambracci contro l’asfalto e continuò a raccogliere gli altri pezzi della bottiglia, con la speranza di rimetterli insieme come prima, anche se questo gli fece sanguinare le mani con le quali continuava a costruire invano piccole barriere di terra. Quando non seppe più cosa fare si alzò per chiedere aiuto, gridando: Datemi qualcosa (non sapeva che cosa) con cui possa raccogliere il mio sangue e quello di mio padre!
I conigli non piangono i loro morti
Per questi piccoli, era il primo giorno; il sole non era ancora sorto, ma loro iniziavano già ad uscire dalla tana, uno dopo l’altro. Il primo coniglio ad uscire fu fuori quello nero: era selvatico e punteggiato di macchioline bianche; fece un salto ed era già scomparso dietro la collina, lontano dalla tana che si trovava sotto un ulivo, accanto ad una valle. Il secondo coniglio era grigio; tutto spaventato cominciò ad annusare l’aria fresca, a starnutire e a girarsi a destra e a sinistra per poi scomparire anche lui dentro al bosco. Il terzo coniglio era di color marrone; fermandosi un attimo all’ingresso della tana, scosse la testa e, dando il buongiorno al grande sole, fece un salto seguendo il coniglio grigio. Non appena il sole cominciò a scomparire lentamente dietro la montagna, i tre conigli si avviarono per tornare alla tana uno dopo l’altro. Il primo a rientrare fu il coniglio nero, che leggero e dinamico era comparso da dietro una roccia e con un salto era già dentro la tana. Fu seguito dal coniglio grigio, che, nonostante il suo lento passo, era sveglio e attento anche lui: infilata la testa nell’ingresso della tana, era già dentro. Infine il coniglio marrone, che, seguendo velocemente come uno spettro il secondo coniglio, si precipitò dentro in un batter d’occhio.
Rientrati tutti, non si sentiva più nessun rumore davanti alla tana.
Passati tre giorni, non appena fu di nuovo mattina, i tre conigli uscirono uno dopo l’altro e quando era ormai mezzogiorno molte pallottole cominciarono a piovere su di loro; il volto del cielo diventò nero e quando fu sera tornarono tutti quanti alla tana, anche se il coniglio marrone, quasi zoppicando, rischiò di sbagliare l’ingresso.
Una settimana dopo, si vide di sera tornare da solo il coniglio nero, perché gli altri due erano rimasti dentro la tana. Dieci giorni dopo, quando il sole appassito stava tramontando, non si vide tornare alla tana nessuno.
Due settimane dopo, i conigli essendosi ripresi dallo spavento, iniziarono ad affacciarsi fuori uno dopo l’altro. Annusavano l’erba fresca e leccavano la rugiada caduta sui fiori appena sbocciati e, saltellando, si ritrovarono già dietro la collina.
I tre conigli erano piccolini quanto un topolino, giocavano tutto il giorno nell’immenso orto e senza rendersene conto si erano addormentati per la stanchezza sotto l’ulivo. Quando fu sera, rientrarono tutti e tre alla tana, mentre fuori si vedeva già la notte calata sulla collina, con il volto del cielo abbellito dalla luce della luna.
Gelosia
Lui adorava le colombe e si divertiva un mondo quando sentiva il loro tubare, odiava però vederle rinchiuse in una gabbia, anche se la più grande della terra; lui era cresciuto convivendo con le casucce delle colombe costruite sulla terrazza di casa, per cui il suo udito era abituato al rumore delle loro ali e al mormorio emesso a volte da lui stesso, quando saliva a giocare con loro, a volte emesso dalle piccole colombine e dalle loro madri dentro i nidi, per comunicare loro le prime lezioni di vita. Lui impazziva quando le vedeva, ma anche quando vedeva i maschietti corteggiare le femminucce in modo così dolce e raffinato come neanche gli uomini sanno fare. Ora però, cosa poteva fare? Si era trasferito in città, dove aveva affittato un appartamento poco più grande di una gabbia!
Ieri ha discusso con sua moglie la possibilità di comprare un paio di colombe e accudirle in questo nuovo appartamento. La moglie ha lanciato un grido dicendo senza aggiungere null’altro: un paio di colombe!!!
Lui però, tornando a casa, ha portato con sé una piccola gabbia. Lei commenta dicendo: Che fai? Terremo forse a casa dei canarini al posto delle colombe? Lui risponde: No, ho chiesto al venditore di uccelli di portarmi solo un paio di colombe: un maschietto e una femminuccia.
E così la sera torna felice a casa con le sue colombe, le mette dentro la gabbia e s’inginocchia a lungo per guardare il loro fine corpicino avvolto in morbidissime piume di color viola. Dice fra sé e sé : “Sarà forse questo il maschietto” per cui guarda con attenzione i suoi occhi neri, il suo becco elegante e la sua coda danzante e poi dice: “E quell’altra dunque è la femminuccia, non c’è dubbio che sarà sensuale più del dovuto!”
Sua moglie osserva la scena da vicino e si domanda: “Un paio di colombe dentro questo piccolo appartamento?!”
Lui non si addormenta finché non ascolta il tubare delle colombe.
Lei si era sposata con lui sette anni prima. Non lo amava. Aveva detto a se stessa più di una volta che l’amore sarebbe arrivato con la convivenza. Ma niente da fare. Il suo cuore rimaneva sempre in un altro luogo, rifiutando l’invito, per cui lei aveva vissuto tutto questo tempo senza cuore.
Ieri non poteva dormire. Suo marito russava. Lei invece nel silenzio e nella solitudine assoluta della notte fonda, ascoltava il tubare triste delle colombe e guardava sotto la luce pallida della luna il becco del maschietto dentro il becco della sua colomba e sentiva i sui gemiti soffocati, osservava come lui la supplicava e girava intorno alla sua femminuccia, mentre lei richiedeva più coccole e diventava sensuale sempre di più.
Lei disse: “Io non sopporto l’amore di queste colombe. Non ce la faccio più.” Si alzò e aprì la porticina della gabbia.
Prometeo
Lessi la sua strana storia in una rivista letteraria e decisi di andare alla sua ricerca per salvarlo da quella infernale tortura. Dicevo tra me e me: gli uomini sono davvero bizzarri! Un dio, che viveva gloriosamente tra gli dei, prova pietà per coloro che vivono sulla terra e soffrono il freddo gelido, decide dunque di risparmiare loro questa sofferenza e sacrifica la sua tranquillità per loro. Quindi ruba il fuoco dal cielo e lo trasporta per rendere felice e riscaldare la vita degli uomini. Subisce l’ira degli dei che lo puniscono fortemente, condannandolo all’esilio eterno in una montagna del Caucaso. Lì comincia a patire il freddo e la neve per tutto l’anno; viene la gru cenerina a mangiare il suo fegato che ricresce di notte, ogni volta che quell’uccello lo consuma completamente. E da allora sino ai giorni nostri Prometeo sopporta tutto questo con molta pazienza senza lamenti e senza gemiti.
Non aveva alcuna importanza se arrivavo tardi per salvare questo dio, l’importante per me era riuscirci. Comprai una pistola e la caricai con sei pallottole, andai a cercare quella gru cenerina, alcuni pastori mi avevano spiegato dove potevo trovare la montagna del dio sofferente. Uno di loro mi disse di stare attento, perché nessuno di quelli che avevano percorso la via di questa avventura era riuscito a tornare, ma io decisi lo stesso di andare. Quindi attraversai monti e monti e passai tra diversi popoli; quando trovai la gru cenerina mentre divorava con il suo becco il fegato di Prometeo, tirai fuori la pistola e la colpii direttamente al cuore; il volatile per la sofferenza cadde subito accanto ai piedi del dio, fermo lì, maestosamente sulla cima della montagna. Vidi dopo il fuoco acceso nelle ali del volatile, che si trasformò in raggi di luce e vidi il dio che palpava la sua ferita delicatamente con le mani che sembravano una brezza primaverile, lo sentii dire: adesso è cominciata la mia sofferenza. Scese dalla cima e cominciò a camminare a piedi scalzi sulle rocce taglienti e sui piccoli sassi che lo conducevano verso l’abisso.
Due pazzi
Alla fine di ogni preghiera si metteva a girare per le strade del villaggio, ripetendo queste parole:
una porta aperta sul cielo: e' la porta di Dio,
una porta aperta sul mare: e' la porta dell’inferno,
una porta aperta sul bene: e' la porta dei dollari,
una porta aperta sulla tristezza : e' la porta degli uomini vivi,
una porta aperta sull’oriente: e' la porta della felicità,
una porta aperta sull’occidente: e' la porta della morte,
una porta aperta sulla vita terrena: e' la porta della sofferenza.
E mentre egli ripeteva queste parole, io ero fermo all’incrocio di queste porte, ma nessuna di esse si era aperta al mio cuore… Chiesi chi poteva essere costui e mi risposero che era il pazzo di questo villaggio, che non mi dovevo avvicinare a lui perché era capace di farmi del male. Non ascoltai i loro avvertimenti e, aggrappandomi agli orli dei suoi vestiti strappati, mi misi a camminare dietro di lui ripetendo le sue parole e forse qualcuna in più…
La mensa
Non appena el-Mu’azzen iniziava a recitare i primi versi del richiamo alla preghiera dell’alba, salmodiando: “Oh servi di Dio, è meglio pregare che dormire”, lei si alzava subito, cacciando via il sonno dal suo volto. Faceva le sue abluzioni, pregava e si dirigeva in cucina per preparargli il caffè del mattino e per riscaldargli l’acqua, che gli serviva per lavarsi, una volta tornato dal turno notturno passato dentro la miniera di fosfato.
Finiva i primi preparativi alle sei ed iniziava ad apparecchiare la tavola, mettendo sopra le tazzine e la caffettiera che lei ci teneva apparisse sempre pulita e brillante. Finito questo, andava direttamente a controllare il bagno, disponeva l’asciugamano, lo shampoo e il sapone; mentre osservava il vapore che saliva dal secchio dell’acqua calda, faceva un sorriso di soddisfazione e andava a sedersi al tavolo, accanto al quale aspettava la sirena della miniera che fischiando richiamava l’attenzione del gruppo dei lavoratori del mattino. Si alzava e apriva la porta a chi stava tornando dal cuore della montagna e a chi aveva dimenticato la strada del ritorno…
Il sultano dei cani
Ospitando sua cugina la foca , il cane decise di portarla fuori per farle vedere la città in cui abitava. Alla foca era piaciuta molto la vita sulla terra, con tutti i suoi rumori e il suo chiasso e, quando erano ormai stanchi della gita, tutti e due tornarono al palazzo dove viveva il padrone del cane.
Arrivati lì, fecero un’altra passeggiata per il giardino, godendo della beltà e della bontà della vita, si misero sdraiati sotto un gelsomino; a quel punto il cane chiese alla sua cugina foca della sua vita, di come la conduceva; lei gli rispose ch’era contenta del suo padrone, che siccome era trattata bene le sembrava di essere il sultano dei cani. Il cane, ascoltando i suoi discorsi, le chiese se era disposta a cambiare la sua vita, lasciando il mare e venendo a condurre insieme a lui, in quel palazzo, un’esistenza agiata e dignitosa. La foca sentendo la proposta del cugino gli chiese un momento di riflessione per valutare meglio la questione.
Quando fu sera venne il padrone del palazzo e mise un guinzaglio intorno al collo del cane, legandolo al gelsomino e lasciandolo lì ad abbaiare per tutta la notte. Il cane non riuscì a dormire fino al sorgere dei primi fili di luce del mattino. Un volta svegliato, cercò la sua cugina foca, ma di lei non c’era alcuna traccia e il suo posto era ormai freddo.
Il talismano protettore
Ero fermo lì, in quella sala d’attesa piena di pazienti e di persone che li accompagnavano: c’erano bambini piccoli accoccolati tra le braccia delle loro madri, una donna anziana sdraiata e addormentata per terra, una giovane signora che raccontava alla sua vicina quanto la faceva soffrire il figlio, che un giorno guariva per ammalarsi quello dopo, c’era anche un uomo anziano che chiedeva alla moglie di far dormire il bambino, perché lui era stanco per aver fatto la coda per ore. Improvvisamente vidi comparire un uomo elegante, un quarantenne, questi guardò a destra e a sinistra i pazienti e poi scelse una signora anziana, il cui volto mostrava una bontà e affettuosità infinite; avvicinandosi a lei le diede un libricino dicendole: “Questo è un talismano di protezione, guarisce i reumatismi, il mal di testa, lo stomaco, i tumori maligni, il cuore e tutte le altre malattie, te lo vendo per un dinaro solamente; immagina, signora, un patrimonio con un dinaro!” Prendendo i soldi dalla sua borsetta, ella pagò l’uomo e conservò il talismano. Lui, con un sorriso largo sul volto, lasciò la signora e continuò a distribuire il libricino ai malati e alle altre persone, prendendo in cambio i soldi. Io però mi ricordavo di lui, il suo volto era quello di un uomo che una volta era stato medico della sanità pubblica, ma non dissi nulla. Quando l’infermiere cominciò a chiamare i pazienti non c’era ormai più nessuno, la sala d’attesa era ormai vuota e il mio piccolo bambino stava dormendo profondamente.
Lontani dal proprio paese
Quando uscimmo dall’università il sole era davvero cocente, l’asfalto si era sciolto e quasi si riversava ai lati della strada, i nostri vestiti erano pregni di sudore e le macchine di diverse marche, come la Mazda, la Nissan, la Toyota Corona e la Toyota Crissida, passavano e sparivano velocissime, come fossero diavoli impazziti; noi due invece eravamo gli unici su quella strada e ad un certo punto sentii il mio amico dire:
- Non ti devi preoccupare, ci riposeremo non appena arriveremo a casa.
Gli risposi:
- E come? Se dobbiamo ancora preparare il pranzo e apparecchiare la tavola!!!
Senza attendere una risposta da lui, mi misi a pensare a quello che aveva detto collegandolo a quello che gli avevo visto fare la notte; infatti egli non aveva dormito, tra le sue mani c’erano un sacco di riviste da donne, le sfogliava e da esse sceglieva le foto delle più belle attrici e top model e le ritagliava con estrema delicatezza. Quando gli chiesi del perché di questa esagerata delicatezza, mi rispose che era per non ferire qualche gamba o qualche petto di queste angeliche creature, per evitare che scorresse il loro sangue o che avvertissero qualche dolore!!! Il giorno dopo su tutti i muri della stanza, erano incollate le foto di Ilham Shahin, di Shirihan, di Nabila Ubaid e di Leila Ulwi. Mi disse che aveva fatto questo per tenerle sveglie, per passare insieme a loro la serata chiacchierando sino allo spuntare dei primi raggi dell’alba.
Questa mattina mentre andavamo all’università, mi bisbiglio' all’orecchio che non ci saremmo dovuti occupare del pranzo, perché di notte Ilham Shahin gli aveva promesso un pranzo reale.
Non potevo fare altro che stare zitto, perché capivo che stava delirando di nuovo e cercavo solo di assecondarlo per non irritarlo, anche se non avevo la forza di fare nulla, perché di notte non mi aveva lasciato dormire, con il rumore delle sue risate, del climatizzatore, della televisione e della radio.
Arrivammo finalmente a casa e non appena aprii la porta rimasi stecchito dalla sorpresa: dentro si sentivano i rumori delle stoviglie in cucina e il buonissimo odore della carne arrostita che riempiva tutto il posto!!!
Il bengalese
Era il mio primo giorno di ricovero presso l’ospedale del re Faisal ad al-Taif , una città saudita. Stavo per entrare nella mia stanza quando vidi l’ausiliario sanitario bengalese seguirmi con un pigiama in mano, offerto dall’ospedale stesso. Vedendomi seduto sul bordo del mio letto, mi tese il pigiama e mi chiese: Sei un egiziano, amico?
Gli risposi con tutta la tristezza e l’amarezza che avevo dentro: No, vengo dalla Tunisia.
Notai che era confuso e che ripeteva più di una volta: Tunisino... E poi disse gridando, come se si fosse ricordato improvvisamente di qualche cosa: Ah, si trova in nord Africa! Io gli risposi semplicemente con un sorriso e tornai a pensare alla mia malattia, al mio espatrio, al punto di sentire scorrere le mie lacrime sulle guance e cominciare poi a piangere ad alta voce. Quando aprii gli occhi, vidi anche lui seduto sul bordo del letto di fronte, stava asciugando le sue lacrime… Non seppi se piangeva per la mia lontananza o per la sua!!!
Divorzio
Il giudice disse alla coppia seduta di fronte a lui:
- Dovete decidervi una volta per tutte, questa è la vostra ultima speranza per una conciliazione e sappiate che, tra le cose lecite, il divorzio e' la più detestata da Dio.
Sentendo questo, il marito rispose:
- Signor giudice, la prego di mettere fine a questa faccenda, darò a questa donna una grossa somma per concedermi l’affidamento dei figli. Lei non sa, signor giudice, questa donna è una catastrofe che Dio ha mandato a me, povera e umile creatura.
Lei invece rispose a queste parole dicendo:
- La prego, signor giudice, di scusarmi, io rifiuto assolutamente questa grossa somma, non voglio più vivere con lui sotto lo stesso tetto ma desidero invece che tutti sappiano che egli è un bugiardo; lui non è stato mai in vita sua sincero con me, anzi mi tradisce non appena mi volto dall’altra parte; lui è un poeta! E possono mai essere sinceri i poeti, signor giudice?
Per me, lui è il castigo che Iddio mi ha mandato su questa terra e non so ancora come sarò castigata nell’aldilà! C’è forse una convivenza peggiore di quella mia con quest’uomo?
Il giorno dopo la notizia del divorzio del secolo tra Jamil e Butaina era su tutti i giornali con le loro foto in prima pagina.
Una tazza di tè alla menta
So che ti piacciono le donne, il tè e il vino. So che ti piace il tè verde alla menta e che sei capace di berne ogni giorno quel che basta per affondare una nave da guerra. Ti piace anche la birra, chiedevi sempre al cameriere di portarti dieci bottiglie, non ti bastavano una o due sul tavolo! E una volta messe tutte davanti a te, ti meravigliavi di quanto erano fredde e ti mettevi ad accarezzarle con tenerezza, con una gioia simile a quella che avverte un bambino che ha appena catturato il suo primo passero. Oltre alla birra amavi anche le donne, le more con gli occhi grandi e belli. So, amico mio, che ti piacevano tutte queste cose, per cui, visitandoti oggi, ti ho portato una bella tazza di tè verde alla menta, il cui vapore volteggia nell’aria, una birra ghiacciata con le gocce di sudore cadenti per terra, le donne invece non hanno accettato di venire con me, oggi tutte hanno paura di te, nonostante i soldi che ho proposto loro. Lo vedi, amico mio, come impaurisci le donne adesso? Sei diventato come un orco delle fiabe. Che schifo che mi fa questa vita! Tieni, amico mio, questo bicchiere e bevilo da solo, finché ti sentirai soddisfatto. Tieni queste bottiglie, buttale giù tutte e non accettare nessuna compagnia.
Fu così che lasciai il mio amico godere della tazza di tè e della birra, infatti, non appena mi allontanai dalla sua tomba, vidi l’impronta della sua mano sul vetro delle bottiglie ghiacciate; non dissi più nulla, perché a quel punto vidi il mio amico affacciarsi tra una bottiglia e l’altra. Abbandonai subito il posto e lasciai il mio cuore sulla sua tomba e, mentre mi stavo avvicinando all’uscita del cimitero, voltandomi indietro lo vidi, questa volta chiaramente seduto sulla tomba e impegnato a bere la sua adorata birra. Dissi tutto felice: “Sembra che sia il giorno del giudizio allora!” Perciò tornai da lui correndo, ma trovai solamente il boccale mezzo pieno e le foglioline appassite della menta, che tremolavano dentro la tazza di tè.
I due amanti
Stavano fermi lì, davanti al receptionista del maestoso albergo. I loro abiti erano strani; somigliavano ai vestiti dei sacerdoti. Ai piedi avevano dei sandali di cuoio, come quelli che gli abitanti del deserto tunisino fabbricano con grande maestria. Dietro loro due stava fermo il maggiordomo con la sua uniforme e il berretto, sostenendo tra le mani, sorridente e accogliente, una grande e nuova valigia.
L’uomo estrasse i loro due passaporti e li consegnò al dipendente. Chiese una camera grande con vista sul mare a condizione che fosse al decimo piano.
Il dipendente fece di sì con la testa e cominciò a compilare il modulo. Scrisse all’inizio del primo foglio: Asaf e all’inizio del secondo: Naela.
I gatti rubano i conigli di notte
Sentivo il rumore dei suoi passi leggeri sul pavimento della terrazza. Vedevo la sua ombra rettangolare sul muro di fronte casa mia, quindi mi alzavo subito con una pietra tra le mani, lo fulminavo con i miei sguardi vigili e lo riempivo d’insulti. Lui, prima di lasciare la terrazza, mi accoglieva con miagolii acuti e continui, irritandomi sempre di più e dicendomi che sarebbe tornato non appena fossi andato nuovamente a dormire.
Gettai dietro di lui una pietra e andai direttamente a vedere come stavano i conigli dentro la loro casetta, ma invano; non appena mi misi a letto, sentii un lamento, saltai velocemente dal materasso e andai a vedere a piedi scalzi cosa stesse succedendo fuori. Mi trafisse il freddo notturno con un colpo, e con due mi pugnalò il grido d’aiuto di uno dei conigli e vidi subito sul muro dei vicini l’ombra rettangolare di un gatto. Si fermò, mentre tra le sue mascelle agonizzava il coniglio, facendomi sentire i suoi gemiti che mi spezzavano il cuore. Il gatto, sicuro di sé, mi guardava diritto negli occhi, come se volesse dirmi: “eh tu, stupido, non te l’avevo detto che sarei tornato non appena fossi andato a dormire?”.
Tornai a casa, accesi la lampada, aprii la finestra e limai un coltello con il quale tagliai la mano nello stesso punto della ferita precedentemente guarita; con il sangue uscito, scrissi accanto alla ferita: i gatti rubano i conigli di notte, non è vero??!
Powered by vBulletin® Version 4.2.2 Copyright © 2024 vBulletin Solutions, Inc. All rights reserved, TranZ by Almuhajir